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In questo spazio pubblico testi personali inerenti a differenti aspetti dello yoga: questioni che emergono durante la scuola o riflessioni sporadiche. 

Meditazione sulla figura

Ho 19 anni. Sono a Santarcangelo con i miei genitori. Ho trascinato i miei a vedere uno spettacolo di danza buto di Masaki Iwana. Prendiamo posto in un’aula scolastica, tutto il pubblico sta ai lati. Masaki si materializza senza preliminari: un corpo animale, teso e asciutto, leggibile nelle sue strutture di tendini. Indossa un costume fatto di collant biancastri cuciti insieme, il famoso costume della pelle che più tardi mi avrebbe insegnato a confezionare. La fronte dipinta di bianco, i capelli scuri lunghi fino alla vita. Anche se danzando non ha movenze femminili, spesso mi accorgo che sto guardando una donna, come se riuscisse a lavorare sulle gradazioni della sua sessualità: uomo-donna-uomo-donna.

Decido di andare a Orvieto per seguire un seminario di danza buto tenuto da lui. In quell’occasione lui non danza ma, capelli raccolti e occhiali, osserva e descrive. Dormo in un affittacamere gestito da una signora obesa con una criniera nera e un respiro pesante che riecheggia giorno e notte in tutte le stanze. Nel letto ci sono le pulci. Le mie gambe si infettano giorno dopo giorno. Ogni pomeriggio c’è lezione. Vado, le mie gambe gonfie e martoriate. Masaki ci fa danzare in base a immagini e suggestioni diverse: un marcire viola, per esempio, oppure “Con leggerezza viaggiare per mare finché i miei polmoni diventano blu”. Qui incontro Silvia Rampelli, una danzatrice che Masaki ha chiamato come assistente. Silvia mi fa partecipe, danzando, del suo universo bellmeriano. Silvia ha braccia e gambe lunghe. Quando danza, il suo corpo si scompone e lei sembra osservarlo straniata. Il suo viso è in continua metamorfosi sempre sull’orlo trattenuto di una sofferenza mai definibile veramente tale. E’ in questo modo che, mentre la osservo, lei mi porta su una soglia emotiva sconosciuta, da cui mi interrogo sulla stasi che questo tipo di danza produce in chi guarda, una specie di sospensione fatta di empatia, intensificazione della sensazione di essere in presenza di un corpo con tutto quello che conduce: emozioni non sempre così codificabili, memorie, immagini, sensorialità.

Ad aprile dell’anno successivo – nel frattempo molte cose sono successe - parto per la Normandia: mi aspettano tre mesi di prove nella casa atelier di Masaki per preparare un suo spettacolo dal titolo Rituale - purificazione. In scena io, Silvia, Masaki e un’altra danzatrice giapponese che ancora non conosco e che deve arrivare da San Paolo: Yoko Muronoi. Dopo pochi giorni dal mio arrivo, un pomeriggio, un taxi si ferma davanti alla grande casa. La portiera si apre e scende una donna giapponese. E’ la donna più magra che abbia mai visto, e tuttavia irradia una femminilità infantile e dolce. Indossa un cappello nero che le copre gli occhi. Ha le lentiggini e muove le dita come se fossero una stoffa, creando onde e forme nell’aria. Solleva il cappello con una mano per salutarci. Nonostante i pantaloni larghi, quando si muove per la casa sembra guidata dalle ossa del bacino, che sono estremamente visibili. Ha un inglese lapidario ed efficacissimo, cui ancora oggi aspiro. Niente a che fare con l’impaccio che mi hanno lasciato anni di inglese scolastico basati sul giocare al gioco di essere inglesi. Yoko rende l’inglese un linguaggio primordiale, asciugandone al limite le strutture, e senza occuparsi affatto della pronuncia. Ciò che rimane è uno spoglio, acuminato mezzo di comunicazione. “Now woman, next man” mi dice una sera a proposito della sua fantasia di vivere la seconda metà della sua vita come uomo. Quando dorme, sta supina, composta, e il suo corpo scompare sotto al lenzuolo. Durante la notte però, a volte si alza e va fuori a camminare. Se mi affaccio alla finestra, la sento battere i denti perché pratica una strana ginnastica che mi insegnerà: il seitai.

Quando facciamo le prove, Yoko entra in uno stato di ascolto del suo corpo e principalmente attende che il suo corpo abbia voglia di manifestarsi sotto forma di un qualunque movimento. Rimane perciò immobile anche diverse ore, a volte distesa con il bacino sollevato e la bocca aperta, puntandosi con i minuscoli piedi. Un momento sembra una lucertola morta, e il momento dopo, inspiegabilmente, comincia una danza aliena fatta di gesti minuti che esegue come se un entità si fosse impadronita di lei. A volte fa dei movimenti più bruschi in cui sembra squarciarsi, accompagnati da suoni di gola secchi simili a uno strangolamento. I capelli nerissimi le toccano l’osso sacro, e a volte le si richiudono tutt’intorno come petali. Ogni suo movimento ha l’intensità di chi non ha un corpo adatto per il quotidiano.

Ci sono dei giorni in cui Masaki ci fa togliere i vestiti per danzare. Lo chiama naked training ed è un modo per vivere il corpo, in scena, con la massima naturalità. I genitali non devono essere di impaccio in questa danza, bisogna riuscire a viversi nudi come potrebbe viversi un animale. L’atmosfera è molto tranquilla e concentrata, e negli squarci di spazio che osservo mentre a mia volta danzo colgo una femminilità depurata da ogni convenzione legata ai cliché del corpo esibito. Le sagome sottili di Silvia e Yoko, i loro capelli lunghi, aure castane che isolano le figure nello spazio. Il corpo si riprende la sua potenza, ed è una potenza tranquilla, di fiume che scorre.

Un giorno Masaki issa Silvia su una specie di sgabello alto due metri, fatto da lui. La base è molto stretta, meno di un metro sicuro, Silvia è incinta ed è preoccupata di cadere. Masaki chiede a Silvia di danzare sul panchetto. Lei si abbassa lentamente come un guerriero ferito al rallentatore. Poi lui le dà in mano un lungo bastone e chiede a Silvia di lasciarlo cadere a terra a un suo segnale. Il bastone, di legno, cadendo rimbalza, e Masaki si arrabbia: il bastone non deve assolutamente rimbalzare, deve fare una botta secca, in modo da cambiare l’atmosfera senza tentennamenti. Fanno molte prove. Il bastone continua a rimbalzare. Masaki se la prende con Silvia, dice che è sua responsabilità trovare un modo, una soluzione. Passano le ore. Silvia è stanca. Sfinita, a un tratto si alza dritta come uno spettro. Tutti sospendono il fiato. C’è qualcosa nell’aria, che parte da dentro di lei. Rimane di pietra per un istante, poi lascia il bastone, che cadendo fa una botta secca, surreale. Masaki entusiasta applaude “Bravo, bravo”.        7/5/2020

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Tratto dalla lettura pubblica Un lampo (2015)

L’asbesto, o amianto di serpentino. A causa della sua resistenza al calore e della sua struttura fibrosa, fu impiegato in maniera massiccia come materiale da costruzione a partire dalla fine dell’ottocento. La prima nazione al mondo a usare cautele contro la natura cancerogena dell'amianto fu il Regno Unito nel 1930 a seguito di pionieristici studi medici che dimostrarono il rapporto diretto tra utilizzo di amianto e tumori. Nel 1943 la Germania fu la prima nazione a riconoscere il cancro al polmone e il mesotelioma come conseguenza dell'inalazione di asbesto e a prevedere un risarcimento per i lavoratori colpiti. Asbesto in latino significa perpetuo, incorruttibile. Ovvero: non disposto a dialogare.

La natura dell’asbesto è quella di stare nella profondità della terra, indisturbato.

 

E’ il momento più viola della sera.

Cammino lungo la massicciata del porto. Se guardo giù, verso quest’acqua scura e calma, sono sicura che questa profondità intensa non sia qualcosa di connesso soltanto all’acqua stessa. La profondità è prima di tutto una qualità a sé. La posso ritrovare, intatta, nella mia mente. Eccola lì allora la mente, ai miei piedi: tranquilla, blu, fonda, misteriosa, com’è davvero. In questa vita possiamo fare esperienza di tutte le qualità dell’invisibile, se soltanto siamo attenti a questa possibilità. Le qualità sono i vettori che ci trasportano da un mondo all’altro, da un livello all’altro, mostrando chiaramente che tutto è lo stesso, ma sotto forma diversa. Freschezza, morbidezza, rigidità, sabbiosità, profondità, vuoto, splendore.

 

Io credo nel principio delle qualità

come realtà prima e ultima,

immutabile,

di tutte le cose.

 

Il visibile è cibo per la mente. E quante volte siamo stati, ad esempio, di fronte a quel fiume di montagna, e senza neanche saperlo, ogni volta risvegliando un po’ di più nella nostra mente la qualità dell’Arcadia, fino a concepirla unicamente per ciò che è, ovvero come stato mentale.

 

 

Allora, seguendo questo filo, da ciò devo dedurre che si troverà, da qualche parte nella mente, anche la qualità mortale dell’asbesto.

Ovvero si troverà un veleno in fase dormiente, con cui il rapporto, a livello cosciente, non sarà affatto scontato.

 

C’è, insomma, una parte della mente la cui evocazione ha la capacità di distruggere sé stessa. Questo è il fatto.

 

 

 

Chi altri potrebbe essere, infatti, Kundalini? Cos’altro, se non un veleno addormentato che tutti trasportiamo in noi?

 

Quel veleno che ci fa essere stupidi, egoisti, terrorizzati, avidi, violenti, depressi, angosciati.

 

Il cosiddetto risveglio di Kundalini è un atto cosciente di ricerca interna dell’asbesto, per bruciarlo, liberando una riserva immensa di forze. Ma è il processo in sé ad essere potenzialmente mortale. Infatti, l’asbesto ingoia in un boccone chi osa cercarlo. Quanti adepti sono sopravvissuti a questo? Si direbbe piuttosto che si siano gettati con estasi nella morte. Ma questo non ci riguarda, non insistete.

 

Tornando a noi.

Le dimensioni sono illimitate, il tempo è infinito. Eppure, si prova sempre a dare una forma alla mente. Forse, perché è un posto così selvaggio che non possiamo realmente entrarvi in contatto senza metterci in pericolo. Ci ucciderebbe. Per esempio, ora, la mia mente mi sta uccidendo. Continua a dirmi che ho una grave malattia, e così il mio corpo comincia a sentirsi male. In questo momento, non sono come uno scalatore, ma piuttosto come qualcuno che si è perso in un bosco minaccioso.  

 

In fondo, se d’istinto tendiamo a rigettare un ottimismo perpetuo come ricetta di vita, è perché la mente non è solo questo, non vi si riconosce del tutto.

 

Veniamo ora al karma.

 

Ogni vita è importante perché è la vita, in sé, ad esserlo. Ogni essere è custode e propagatore della fluidità vitale, conducendola attraverso spazio e tempo. Per mezzo dello scorrere ininterrotto della vita avviene l’evoluzione del pensiero nel tempo.

Tutto riposa nel valore fondamentale dell’eterno passaggio del soffio vitale da predecessore a  discendente, e in quella vita così fragile che pure continua a scorrere nei secoli, come un liquido, notte dopo notte, e il continuo rinnovarsi del sole. Non la singola vita, in questo senso, importa, del resto, ma soltanto il fluire continuo della scintilla così come si manifesta nell’esistente, e che passa da uomo a uomo come una fiamma. Passo dopo passo, intuizione dopo intuizione, vita dopo vita, stella dopo stella, il senso stesso dell’esistere collettivo si va modificando, così che tra mille anni il senso del vivere sarà  completamente rivoluzionato. Questo è il denso oro che stilla da tutti e da nessuno in particolare, e che attraversa da sempre tutte le vite che si siano affacciate sul pianeta terra.

 

 

 

All’opposto si trova il concetto di karma.

Karma è un termine sanscrito che significa creare, creare agendo. Trova suoi corrispondenti nel greco kraino e nel latino creare, rimandando sempre al termine realizzare, creare. Il karma è, allora, la traccia lasciata nella mente dall’insieme delle azioni prodotte nel corso della vita. Dunque, allo stesso tempo, ciascuno produce e abita il proprio karma.

Attraverso ogni atto, creiamo poco a poco il nostro destino, in accordo con le leggi della natura. L’atto è un linguaggio puramente umano, la materia della nostra esistenza terrestre.

E se la vita, fiumarola, non ci appartiene mai veramente, il karma, invece, sì. Esso è, precisamente, ciò che fa della vita la nostra esistenza specifica, unica e personale. Il senso profondo di essere, di essere stata, me stessa, in questa vita.

Il karma è destino, perché definisce chi siamo: le nostre paure, desideri , i talenti più o meno assecondati. E’ collegato al nostro passato, a una sorta di eredità congenita persino, al tempo in cui ancora non eravamo nati: fanno parte del karma i desideri dei nostri genitori, le nostre origini, che pure ci collegano al presente e al futuro.

 

 

Il cosiddetto karma buono è l’insieme degli atti che deriva dallo sforzo quotidiano di produrre un pensare che non sia né convenzionale, né superficiale.

 

Mio padre, Gareth Knight, si soffermava parecchio su questo punto, ovvero su come accrescere il karma buono, ovvero ancora sul tema della purificazione dell’intelletto in relazione agli atti che compiamo.

Aveva nel suo salotto l’immagine del capricorno che, saltando di roccia in roccia, supera l’ignoranza, che è come una trappola.

Mi parlava inoltre della potenza dell’azione talismano. Essa è la forza con cui, talvolta, si riesce a rivoltare un proprio karma grigio in un karma luminoso.

Azione talismano è ogni azione che va contro l’istinto base di autoconservazione in favore di qualcun altro. Sospendendo così, per un istante, le leggi naturali, il senso stesso del tempo si sospende e si fa più acuto il senso di percezione della realtà.

 

 

Che cos’è, invece, il karma cattivo?  E’ una traccia sottile, è tutto il dispiacere personale collegato alle azioni del passato che consideriamo vergognose, codarde, violente, ottuse. E’ il boccone indigesto.

Sono gli atti concreti che, durante la vita, sono stati generati, volontariamente o no, dalla qualità serpentina dell’asbesto.

 

Bruciare il karma

 

La conoscenza di sé passa anche per l’attraversamento di una serie di crisi dell’anima, in cui non solo veniamo in contatto con i nostri punti deboli, ma ne siamo temporaneamente in balia. E’ fondamentale allora, in questi momenti, mantenere viva l’eco della fede, la fede nel fatto che le cose cambieranno, che la disperazione non durerà per sempre. Questa minima luce, o anche soltanto la memoria della luce che conserviamo in noi, dovrebbe essere la nostra scialuppa.  Ciò si intende con l’espressione bruciare il karma.

 

 

Il libro egizio dei morti

 

Immaginate di trovarvi lungo un sentiero che si addentra nel bosco. Non è buio, perché, tra le chiome degli alberi, si aprono degli spazi irregolari in cui il sole riesce a  fluire. Così, sull’erba, ci sono dei circoli di luce. In realtà sono macchie di asfodeli, ma sembrano parte del sole stesso.

E’ precisamente questo sentiero l’ultimo luogo in cui si brucia il karma.

Qui, da dove non si torna più indietro, avviene una cosa del tutto nuova: tutto ciò che non è conforme alla verità spirituale, per questo stesso motivo cessa di essere reale. Questo processo è detto, forse in modo improprio, giudizio: ovvero la riorganizzazione profonda della coscienza che prelude alla morte, o ad una trasformazione spirituale definitiva. Nel libro egiziano dei morti, questo momento è raffigurato attraverso Anubi, o la stessa Maat, nell’atto di pesare il cuore di colui che passa la soglia.

Nuovi parametri, nuovi stati rendono il male un problema non più esistente.

Si lascia per sempre l’asbesto al suo ambito terrestre, là dove è reale la sua presenza e le conseguenze che ne derivano.

(Francesca Proia)

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In foto: francesca proia - foto: danilo conti (tutti i diritti riservati)

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